XXX domenica del tempo Ordinario anno C

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“O Dio, abbi pietà di me peccatore”

di ENZO BIANCHI

Lc  18,9-14

In quel tempo Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri: «Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: «O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo». Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: «O Dio, abbi pietà di me peccatore». Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato». 


La parabola che oggi la liturgia ci fa ascoltare è collocata da Luca al capitolo 18, ancora in relazione alla preghiera. Quando pregare? Sempre e con intensità, risponde la parabola del giudice iniquo e della vedova insistente (cf. Lc 18,1-8), ascoltata domenica scorsa. Come pregare? Come il pubblicano e non come il fariseo, risponde la parabola odierna. Ma in questo testo è in gioco qualcosa di più. O meglio, Gesù tratta sì di due atteggiamenti diversi nella preghiera, ma in realtà attraverso di essi allarga l’orizzonte: ci insegna che la preghiera rivela qualcosa che va oltre se stessa, riguarda il nostro modo di vivere, la nostra relazione con Dio, con noi stessi e con gli altri.

Tutto ciò è già contenuto nell’incipit: “Disse questa parabola ad alcuni che confidavano in se stessi perché erano giusti”. Il peccato di questi uomini religiosi non è la presunzione di essere giusti ma il mettere fede-fiducia in se stessi e non in Dio. La loro osservanza delle leggi e la loro scrupolosa pratica religiosa li convincono di potersi fidare di sé, senza più attendere nulla da Dio. Tale atteggiamento ha come ovvia conseguenza il ritenere gli altri nulla, il disprezzarli. Gesù sa, proprio perché anch’egli è un credente e conosce bene i rischi della religione, che non basta essere figli di Abramo per essere dei veri credenti. Lo aveva già detto il Battista: “Non cominciate a dire tra voi: ‘Abbiamo Abramo per padre!’. Perché io vi dico che da queste pietre Dio può suscitare figli ad Abramo” (Lc 3,8). Gesù sa che ci sono barriere create dagli umani che non sono tali per Dio. Gesù sa che ci sono dei credenti che in realtà sono increduli, abitati dall’idolatria, che ostentano la loro fede, ma poi non realizzano la volontà di Dio…

Ecco allora il racconto della parabola: “Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano”. Il tempio è il luogo in cui si adora il Dio vivente, il luogo dell’incontro con lui, attraverso il culto stabilito dalla Torah. Entrambi sono nello spazio riservato ai figli di Israele, davanti al Santo, riservato ai sacerdoti. Entrambi invocano il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio rivelatosi come Signore a Mosè, il Dio che ha fissato la sua dimora nel tempio di Gerusalemme. Ma le somiglianze finiscono qui. Uno dei due è un militante del movimento dei farisei, l’altro un esattore delle tasse, uno che esercita un mestiere disprezzato, appartenente a una categoria di corrotti. Di più, l’esattore è detto “pubblicano” in quanto “pubblicamente peccatore”, “corrotto manifesto”, perciò maledetto da Dio e dagli uomini.

Il fariseo, ritenendosi conforme alle attese di Dio, sta in piedi, nella posizione consueta dell’orante ebreo, e fa nel suo cuore una preghiera che vorrebbe essere un ringraziamento a Dio. Ma in realtà è concentrato su di sé e mentre vanta i suoi meriti si autocompiace, fa il paragone tra sé e gli altri, giudicandoli. Nessun dubbio in lui, ma uno stare in piedi sicuro di stare davanti a Dio, a fronte alta, ignaro del fatto che può stare in piedi solo per grazia, perché reso figlio di Dio. Il suo monologo dichiara lontananza dagli altri uomini ma anche lontananza da Dio, non conoscenza di lui, dal quale aspetta solo un “amen” alle sue parole. Annota con finezza Agostino: “Era salito per pregare; ma non volle pregare Dio, bensì lodare se stesso”. È evidente che in una simile preghiera l’intero rapporto con Dio è pervertito: la chiamata alla fede è un privilegio, l’osservanza della Legge una garanzia, l’essere in una condizione morale retta un pretesto per sentirsi superiore agli altri.

Si faccia però attenzione: ciò che Gesù stigmatizza nel fariseo non è il suo compiere opere buone, ma il fatto che egli, nella sua fiducia in sé, non attende nulla da Dio. Il problema è che si sente sano e non ha bisogno di un medico, si sente giusto e non ha bisogno della santità di Dio (cf. Lc 5,31-32): ha dimenticato che la Scrittura afferma che il giusto pecca sette volte al giorno (cf. Pr 24,16), cioè infinite volte! Sì, quanti, essendo osservanti e dunque giusti, confidano in sé, ringraziano Dio per ciò che sono e non pensano di dover chiedere a Dio misericordia, di dover mutare qualcosa nella propria vita, ma sono trascinati dall’autocompiacimento a disprezzare gli altri! Per questo il fariseo nel suo ringraziamento enumera i peccati altrui, dai quali si sente esente: “Sono ladri, ingiusti, adulteri”, per non parlare del pubblicano che è insieme a lui nel tempio…

Ma ecco, di fronte a questa preghiera, quella del peccatore pubblico. All’inizio del vangelo Gesù aveva chiamato a essere suo discepolo proprio un pubblicano, Levi, e si era recato a un banchetto nella sua casa, scandalizzando scribi e farisei (cf. Lc 5,27-32); alla fine, subito prima del suo ingresso a Gerusalemme, sarà un altro pubblicano, Zaccheo, ad accogliere Gesù nella sua casa, suscitando ancora la riprovazione degli uomini religiosi (cf. Lc 19,1-10). In tal modo l’annuncio del Battista secondo cui “Dio può suscitare figli ad Abramo dalle pietre” (Lc 3,8) si fa evento in Gesù; non chi dice di avere Abramo per padre è suo figlio (cf. ibid.), ma uno come Zaccheo, pubblicano, è dichiarato da Gesù “figlio di Abramo”, raggiunto nella propria casa dalla salvezza (cf. Lc 19,9).

Ma perché Gesù sceglieva di preferenza la compagnia dei peccatori pubblici, fino a dire agli uomini religiosi: “I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio” (Mt 21,31)? Non per stupire o scandalizzare ma per mostrare, in modo paradossale, che queste persone emarginate e condannate sono il segno manifesto della condizione di ogni essere umano. Tutti siamo peccatori – e pecchiamo, finché ci è possibile, in modo nascosto! –, ma Gesù aveva compreso una cosa semplice: i peccatori pubblici sono esposti al biasimo altrui, e perciò sono più facilmente indotti al desiderio di cambiare la loro condizione; essi possono cioè vivere l’umiltà quale frutto delle umiliazioni patite, e di conseguenza possono avere in sé quel “cuore contrito e spezzato” (Sal 51,19) in grado di spingerli a cambiare viti.

Il pubblicano è un uomo non garantito da ciò che fa, anzi i suoi peccati manifesti lo rendono oggetto di disprezzo da parte di tutti. Egli sale al tempio nella consapevolezza, sempre rinnovata a causa del giudizio altrui, di essere un peccatore, mendicante del perdono di Dio. Per questo Luca descrive accuratamente il suo comportamento, opposto a quello del fariseo. “Si ferma a distanza”, non osa avvicinarsi al Santo dei santi, dove dimora la presenza di Dio; “non osa nemmeno alzare gli occhi al cielo”, ma li tiene bassi, vergognandosi della propria condizione; “si batte il petto”, gesto tipico di chi vuole manifestare il suo pentimento, come le folle di fronte allo “spettacolo” (Lc 23,48) della morte in croce di Gesù.

Le sue parole sono brevissime: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”. È l’invocazione che ritorna più volte nei salmi (cf. Sal 25,11; 51,13, ecc.). È il chiedere a Dio che continui sempre ad avere tanta pietà di noi peccatori: quanto ne abbiamo bisogno! È “la preghiera dell’umile che penetra le nubi” (Sir 35,21), che non spreca parole, ma che vive della relazione con Dio, della relazione con se stesso, della relazione con gli altri: chiede perdono a Dio, confessa il proprio peccato e la solidarietà con gli altri uomini e donne. Il pubblicano si presenta a Dio senza maschere, i suoi peccati manifesti lo rendono oggetto di scherno: non ha nulla da vantare, ma sa che può solo implorare pietà da parte del Dio tre volte Santo. Egli prova lo stesso sentimento di Pietro, perdonato fin dal momento della sua vocazione quando, di fronte alla santità di Gesù, grida: “Signore, allontanati da me che sono un peccatore!” (Lc 5,8; cf. Is 6,5). L’umiltà di quest’uomo non consiste nel fare uno sforzo per umiliarsi: la sua posizione morale è esattamente quella che confessa e dalla quale è umiliato! Non ha nulla da pretendere, per questoconta su Dio, non su se stesso. E ciò vale anche per noi: il nostro nulla è lo spazio libero in cui Dio può operare, è il vuoto aperto alla sua azione; su chi è troppo “pieno di sé”, invece, Dio è impossibilitato ad agire… E si noti: Gesù non elogia la vita del pubblicano, così come non condanna le azioni giuste del fariseo, ma la sua condanna va al modo in cui il fariseo guarda alle sue azioni e, attraverso di esse, a Dio stesso.

Terminata la parabola, ecco il giudizio di Gesù: “Io vi dico che il pubblicano, a differenza dell’altro, tornò a casa sua reso giusto (da Dio), perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato”. Quest’ultima sentenza proverbiale, già presente al termine della parabola sulla scelta dei posti a tavola da parte degli invitati a un banchetto (cf. Lc 14,11), echeggia le parole del Magnificat: “Il Signore innalza gli umili” (Lc 1,52). Ma come intendere questo innalzamento e questo abbassamento? E soprattutto, come intendere l’umiltà, virtù ambigua e sospetta? L’umiltà non è falsa modestia, non equivale a un “io minimo”: non chi si fa orgogliosamente umile è innalzato da Dio, perché questo equivarrebbe a replicare l’atteggiamento del fariseo, sarebbe orgoglio mascherato da falsa umiltà. No, è innalzato da Dio chi riconosce il proprio peccato, chi, aderendo alla propria realtà, riconosce il proprio peccato, accoglie dagli altri le umiliazioni quale medicina salutare e, patendo tutto questo, persevera nel riconoscimento della grazia e della compassione di Dio, ossia nella fiducia in Dio, nel contare sulla sua misericordia che può trasfigurare la nostra debolezza.

Attraverso la figura del pubblicano Gesù ci esorta a umiliarci nel senso di lasciarci accogliere e perdonare da Dio, che con la sua forza può curarci e guarirci; a non perdere tempo a guardare fuori di noi, scrutando gli altri con occhio cattivo e spiando i loro peccati; ad accettare di riconoscere la nostra condizione di persone che “non fanno il bene che vogliono, ma il male che non vogliono” (cf. Rm 7,19). Il pubblicano non ha costruito né vantato una sua giustizia davanti a Dio e agli altri, ma ha lasciato a Dio la libertà di giudicare; a Dio si è affidato, invocando come unico dono di cui aveva veramente bisogno la sua misericordia. Con una preghiera così breve e semplice è entrato in comunione con Dio senza separarsi dagli altri, e ora, perdonato, fa ritorno alla vita quotidiana nella compagnia degli uomini.

La parola conclusiva di Gesù, solennemente e autorevolmente introdotta da “Io vi dico”, fa di un giusto un peccatore e di un peccatore un giusto. Il giudizio di Dio, narrato da Gesù, sovverte i giudizi umani: chi si credeva lontano e perduto è accolto e salvato, mentre chi si credeva approvato, accanto a Dio, è umiliato e risulta lontano. Questo può apparire scandaloso, può apparire un inciampo nella vita di fede per gli uomini religiosi, ma è buona notizia, è Vangelo per chi si riconosce peccatore e bisognoso della misericordia di Dio come dell’aria che respira.