XXV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C

Siamo sempre noi quelli truffati?

Quando guardiamo il dipinto di Caravaggio, intitolato I bari, sono certo che siamo indotti ad avere compassione per il giovane vestito completamente di nero, con il volto ingenuo e quasi infantile, mentre viene ingannato da due uomini dal volto poco rassicurante, due truffatori. Proveremo compassione perché in fondo ci sentiamo come lui, truffati, ingannati, magari traditi proprio dall’amico con cui stavamo giocando. Più difficilmente avremo il coraggio di riconoscere che tante volte quello che ha ingannato e imbrogliato l’altro sono stato io!

La vita è un gioco in cui si creano complicità, un gioco nel quale vogliamo vincere a tutti i costi. E proprio per questo motivo diventiamo più o meno spregiudicati. Anche noi usiamo bilance false (Am 8,5), come leggiamo nel testo del profeta Amos, usiamo due pesi e due misure, siamo pronti a giustificare i nostri tradimenti, ma diventiamo implacabili contro i nostri aguzzini. Le nostre relazioni sono il terreno principale dove cresce la nostra disonestà, il mercato in cui siamo pronti a vendere anche lo scarto del nostro grano (Am 8,6), facciamo finta di donare all’altro il meglio di noi e invece consegniamo solo quello che non ci serve.

Il momento della verità

Arriva però per tutti un momento in cui siamo riportati davanti a noi stessi e siamo chiamati a prendere consapevolezza di come stiamo gestendo quello che la vita ha messo a nostra disposizione, molto o poco che sia. Nel brano del Vangelo di Luca, amministrare e sperperare diventano due modi di affrontare la vita. Non sappiamo se l’amministratore, protagonista di questo testo, sia effettivamente disonesto o se è solo quello che si dice di lui, sta di fatto che si trova in quel momento della vita in cui è chiamato a rendere conto. È quella l’occasione in cui diventare creativi.

A ben guardare infatti tutti noi, a proposito della nostra vita, non possiamo che essere sempre disonesti, la nostra ricchezza è sempre stata guadagnata senza nostro merito, perché non c’è nulla di quello che abbiamo che sia propriamente nostro. La vita ce lo ha affidato. Il problema emerge quando dimentichiamo questa origine e vogliamo trasformare le cose in nostra proprietà. La vita ci ricorda che, in qualunque momento, quello che abbiamo può esserci tolto, proprio perché non ci appartiene come stabile proprietà, ma solo come dono di cui godere e prenderci cura.

È il peccato di Adamo che non vuole riconoscere nel frutto dell’albero un dono, ma pretende di possedere, di arricchirsi, e proprio allora comincia a morire. L’amministratore è chiamato a verificare che rapporto sta creando con le cose, le relazioni, i ruoli della sua vita. E se domani non ci fossero più?

Disonesti, ma generosi

La ricchezza è quell’atteggiamento che ci dà l’illusione di possedere. In realtà, sono le cose che ci possiedono e diventano i nostri padroni. Ecco perché Sant’Ignazio di Loyola vede nella ricchezza il primo gradino che porta verso la perdizione: «Vi sono perciò tre scalini: il primo è la ricchezza, il secondo il vano onore, il terzo la superbia; da questi tre scalini egli [il Nemico] spinge gli uomini a tutti gli altri vizi». [EE 142]

Quello che Gesù loda in questo amministratore non è la disonestà, ma il modo in cui decide di affrontare la nuova situazione difficile della sua vita: anziché approfittare, cercando di guadagnare illecitamente fino all’ultimo momento, l’amministratore capisce che la dinamica che ci salva è quella del dono, comincia perciò a con-donare, a togliere, a ridurre il debito che l’altro ha contratto verso il padrone. Così anche noi ci salviamo solo se cominciamo a perdonare. Il perdono ci permette di diventare amici di coloro che non hanno la possibilità di ricambiare. Il perdono non è una merce di scambio: è tanto più autentico quanto più l’altro non lo meriterebbe.

A volte siamo noi

Non dimentichiamo che questa parabola è collocata da Luca subito dopo la parabola della misericordia, in cui un figlio minore aveva voluto la sua parte e l’aveva sperperata e dove un figlio maggiore viveva la frustrazione di non sentire mai sufficiente quello che aveva a disposizione. E guarda caso, alcuni interpreti vedono nel giovane ingannato, nel quadro di Caravaggio, una rappresentazione del figlio più giovane che nei luoghi della sua perdizione finisce in realtà con l’essere ingannato.

A questo punto possiamo ritornare allora a guardare il dipinto de I bari e provare a chiederci di nuovo dove ci collochiamo in quella scena. Ci facciamo questa domanda alla luce di quello che san Paolo ci ha ricordato nella Prima lettera a Timoteo: «Dio vuole che tutti gli uomini siano salvi» (1Tm 2,3). Traditori o truffati, tutti abbiamo sempre la possibilità di cambiare per camminare verso una vita piena, una vita in cui diventare amministratori misericordiosi, pronti a condonare.
P. Gaetano Piccolo S.I.


Compagnia di Gesù (Societas Iesu)